Pomeriggi - 16 giugno 1980
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Quel pomeriggio il cielo era un po’ nuvoloso e l’aria tiepida, come era giugno a quei tempi, estate ma non del tutto.
Lucia era scesa in strada con la sua borsa di tolfa, doveva farne firmare il pannello anteriore, dalla parte interna, anche agli amici di quartiere, così come avevano già fatto i suoi compagni di classe della seconda media.
Aveva indossato un vestito tipo indiano, leggerissimo, in base azzurra, e ai piedi portava un paio di espadrillas rasoterra più o meno dello stesso colore, ma un po’ più chiaro. Le sue erano diverse dalle altre: la tomaia era lavorata all’uncinetto e non di cotone liscio come quelle che si vedevano ovunque.
I capelli castani li aveva lasciati sciolti, lunghi fino alle spalle, anche se non li amava tanto perché non stavano mai a posto, erano mossi, ma non ricci, e neanche lisci.
Attraversando la strada, quasi per nulla trafficata, intravedeva qualcuna delle sue amiche nei giardinetti di fronte; Marika già la stava salutando vistosamente.
Prima quelli non erano giardini, era solo un quadrato di terreno incolto in mezzo ai palazzi recintato da una lamiera ondulata di ferro. I ragazzini, ovviamente, ci avevano fatto un varco, ed entravano in quella che a loro sembrava una specie di foresta, raccontando di scoperte eccezionali e di animali fantastici ai meno coraggiosi che restavano fuori.
Poi una domenica mattina dell’anno prima era arrivata come una brigata: un gruppo di ragazzi aveva parcheggiato un camioncino su uno dei lati corti del quadrato di terra, e sul rimorchio aperto era spuntato un piccolo complesso musicale che intonava canzoni popolari e di rinascita. Nel frattempo le lamiere venivano giù e tutte le erbacce tagliate e sradicate a suon di musica.
Lucia aveva assistito alla scena con curiosità, sembrava una festa di paese a sorpresa. Tutti gli abitanti del quartiere stavano a guardare muti, tranne il proprietario del pezzetto di terra che sembrava dire cose del tipo: “me la pagherete”, ma non faceva nulla neanche lui. In realtà quel fazzoletto lo aveva escluso dalla vendita quando aveva ceduto i terreni, ma ormai non aveva senso tra la strada e i palazzi, anche perché non era tenuto nel decoro, e visto che il comune non faceva nulla, si erano mossi alcuni giovani del posto.
I giovani del posto, a quei tempi, erano divisi in varie categorie, tutte attive su piani diversi. Quelli dello sfalcio forzato erano i più grandi, i diciotto-ventenni, Lucia li vedeva grandissimi, però non adulti, erano una specie di ambizione vivente, erano ciò che lei voleva diventare. Una volta aveva sbirciato in un locale che dava sulla strada perché li vedeva entrare e uscire indaffarati: stavano preparando una festa, dal soffitto pendeva una palla ricoperta di specchietti e agli angoli c’erano delle luci blu e rosse. Era scappata subito via, non era autorizzata a stare lì, era troppo piccola.
Li conosceva di vista tutti, qualcuno era il fratello o la sorella più grande di qualche suo amico, ma si sentiva invisibile ai loro occhi, e molto probabilmente lo era. Andavano in giro per il quartiere con il quotidiano sotto il braccio come se discutessero di cose importantissime. Le ragazze, inoltre, sembravano essere tutte bellissime loro malgrado: alte, magre, con questi capelli ricci lunghi e perfetti, a volte neri, a volte rossi, andavano via verso il corso cittadino in gonne lunghe e zoccoli olandesi ormai quasi passati di moda.
- Ciao, perché hai la borsa?
La domanda di Marika è perfettamente comprensibile, a quell’età si esce senza borsa, senza chiavi, senza fardelli. E’ l’età in cui ti basti tu.
- Ciao, per farla firmare, qui, vedi? Come hanno fatto i miei compagni a scuola.
- Oh, sì, posso? Hai tu la penna?
- Certo, ho anche il pennarello se preferisci.
- Ecco, sì, prendo il carioca rosso, aspetta però che devo pensare anche a una bella frase, mi voglio distinguere!
Marika aveva la stessa età di Lucia, ma frequentavano scuole diverse, pur abitando vicine. I ragazzi del luogo si erano sempre divisi tra due scuole medie, e la scelta era stata sempre determinata dai più svariati motivi, a volte al limite dell’irrazionale.
Minuta, i capelli biondo cenere raccolti in una coda, indossava un vestito scamiciato a quadroni scozzesi e ballerine nere.
- L’hai visto Andrea?
- No, non l’ho visto, sono appena arrivata, perché, c’è?
- Sì, diciamo, sta giocando nel campetto di là.
Il campetto era un piccolo monticello di terra, un po’ dietro i palazzi, che aveva una superficie in piano abbastanza ampia da poterci giocare a calcio, con un paio di sassi o le magliette ammonticchiate a delimitare le porte.
Andrea era il ragazzo che piaceva a Lucia e, come succede spesso a quell’età, di fatto, si evitavano.
- Vieni, sediamoci qua che penso alla frase.
Lucia e Marika si misero sedute su una delle panchine dei giardinetti nuovi. In realtà non erano panchine, lo stile con cui il comune aveva arredato la nuova area urbana era moderno, quasi avveniristico, quelle mode che sono tanto attuali oggi quanto saranno fuori luogo e anacronistiche tra qualche anno.
Disseminati lungo tutta l’area, infatti, c’erano dei gruppi di cilindri in pietra, due più bassi e larghi che fungevano da seduta, e uno più alto e stretto che serviva come vano per una pianta: l’albero che avrebbe dovuto fare ombra a chi stava seduto.
I colori andavano dal giallo al grigio e rosso. La cittadinanza in fondo ne era contenta, e nei pomeriggi estivi in quel piccolo spazio c’erano signore che prendevano il fresco, i mariti che chiacchieravano tra loro di politica, le ragazzine come Lucia e Marika e quelle più piccole, che giocavano alla “settimana” un po’ più in là, oppure facevano la conta “Mi chiamo Lola e son spagnola, per imparare l’italiano vado a scuola…”.
Un altro gruppo di bambini si trovava ancora in un’altra area, poco lontano, vicino a un piccolo ruscello che scorreva dietro i palazzi, tutti lo chiamavano “il fiumetto”. Lì vicino c’era un piccolo sterrato, e i ragazzini avevano allestito una pista per le biglie. Li potevi vedere accovacciati e concentrati che lanciavano le palline di vetro colorato con un “tips”, o per fare buca, o per colpire le altre e guadagnarsele. Ma ovviamente solo dopo che avevano fatto “buca”.
Amiche per sempre. Marika.
- Ti piace? Ci ho anche fatto un cuoricino.
Marika sorrideva tutta soddisfatta, Lucia le diede un bacio sulla guancia e richiuse la borsa.
Alzando lo sguardo vide arrivare Stefano, era con un altro ragazzo che però non abitava nel quartiere, né lei né Marika lo avevano mai visto prima.
Stefano aveva quindici anni, frequentava l’Istituto Tecnico per Geometri, arrivò scanzonato con i jeans strappati e lo zainetto di nylon color giallo paglierino. Era bravissimo a disegnare, lo sapevano tutti perché i muri esterni del condominio erano stati impercettibilmente decorati da lui. Impercettibilmente perché Stefano faceva dei piccoli disegni con la biro nera su una parete di marmo striata di grigio e nero, da lontano non si notavano. Da vicino erano caricature bellissime con una linea armoniosa e un tratto inconfondibile. Tutti sapevano che erano opera sua e andava bene così, era diventato il disegnatore del quartiere, e che nessuno osasse cancellare i suoi disegni.
Il ragazzo che stava con lui guardò Lucia e corrugò le sopracciglia, come se la ragazza gli ricordasse qualcuno, poi si girò verso Stefano ed esclamò:
- Ma è lei, è la ragazza del ritratto!
- Che ritratto? – chiese Lucia.
- Nessun ritratto rispose Stefano un po’ contrariato.
- Ma come nessun ritratto? E’ uguale, è lei, l’hai disegnata e ce l’hai appesa in camera!
- Che cosa…- cominciò a dire Lucia, ma Stefano la interruppe, con determinazione.
- Non è lei – guardando il suo amico – non sei tu – rivolto a Lucia – è una ragazza del mare, effettivamente ora che me lo fa notare ti somiglia, ma non sei tu.
- Ah, ok – chiuse Lucia.
Il fatto che Stefano fosse andato direttamente a parlare con Marika e Lucia non era consueto, di solito frequentavano gruppi diversi, non appartenevano alla stessa fascia d’età.
Ma quel pomeriggio non era come tutti gli altri, c’era un’aria un po’ strana, c’erano dei movimenti anomali, presenze diverse.
- Chi sono, dove vanno, cosa c’è? Voi lo sapete?
Stefano si rivolse a Lucia indicando il marciapiede di fronte, quello che lei aveva attraversato da pochi minuti senza accorgersi di nulla, presa com’era dalla sua borsa da far firmare, ed era percorso da un fiume di giovani.
Lucia li vide, come di colpo, ragazzi mano nella mano, con le borse a tracolla, con gli zaini, zoccoli e espadrillas, che camminavano lenti, come se passeggiassero senza meta, ma in realtà avevano una ben precisa destinazione.
Il percorso, infatti, era quello che portava allo stadio, ma la moltitudine di persone non aveva nulla a che vedere con il calcio, con quello che vedevano a domeniche alterne.
La squadra della città era stata promossa in serie A pochi anni prima, e tutte le volte che giocava in casa c’era questo flusso di tifosi che si recava allo stadio per sostenerla. Erano uomini adulti, intere famiglie che portavano con sé i cuscini biancoverdi per rendere più comode le sedute, gruppi di amici che camminavano svelti sventolando le bandiere, talvolta intonando cori per anticipare la festa.
Quel pomeriggio non erano tifosi, indubbiamente non lo erano.
Lucia, Marika, Stefano guardavano quella sfilata di persone come ipnotizzati, quando vennero distratti da una voce: “Bambini, avete visto quanta gente?”
La signora che parlava era la portinaia del palazzo di Marika, stava lì ogni pomeriggio, si dava il cambio con il marito che lavorava quasi sempre di mattina, e conosceva quei ragazzini uno per uno.
- Sì, ma dove stanno andando? – le rispose Lucia.
- Dove stanno andando di sicuro non lo so, quello che so è che sono dei drogati debosciati, stanotte alcuni di loro hanno dormito nell’androne del nostro palazzo, me ne sono accorta.
Lucia senza farsi scorgere alzò gli occhi al cielo, per la signora Gilda tutti i giovani erano drogati e debosciati, non se ne salvava nessuno, mai. Anche nei pomeriggi normali, se le capitava di vedere qualche giovane coppia che si scambiava innocenti effusioni, cosa inconcepibile ai suoi tempi, partiva con la sfilza di epiteti a loro rivolti che si concludeva con l’inevitabile “dove andremo a finire”.
Quel pomeriggio Lucia le chiese di rimando:
- Dormito nel palazzo? E perché mai?
- Mah, non lo so, ho sentito dire che vengono da lontano, persino dalla Grecia, pare, e sono arrivati ieri e si sono accampati qui.
Il mistero si faceva sempre più fitto, pareva che ci fosse un evento internazionale a tre passi da lì, ma nessuno sapeva di cosa si trattasse.
Con i jeans stinti, le All Star sporche di terra e il pallone sotto il braccio arrivò trafelato Andrea.
- Ciao.
- Ciao.
- Ciao.
E tutti insieme, inclusa la signora Gilda, guardarono nella stessa direzione: il flusso di persone non accennava a diminuire.
- E’ un concerto rock – esordì Andrea.
Lucia si girò verso di lui con aria interrogativa, notò i suoi capelli arruffati e biondi e gli occhi azzurri, stava per dire qualcosa ma Stefano la anticipò:
- Che concerto, come lo sai?
- I ragazzi grandi, sono passati al campetto dove giocavo, ci sono andati anche loro, li sentivo parlare. Pare che sia una stella del rock, ma il nome non me lo ricordo.
- E una stella del rock viene a fare un concerto qui? – intervenne Marika.
- Perché no? - rispose Andrea.
Quella sera, prima di cena, in un crepuscolo grigio argento Lucia si affacciò alla finestra della sua stanza e guardò verso lo stadio. Non poteva vederlo esattamente, ma sicuramente se ne poteva individuare l’area. Le sembrò di scorgere il cielo illuminato da luci colorate e di sentire, in lontananza, il suono della musica.
Epilogo
Il racconto è il ricordo di quella volta in cui allo stadio di Avellino ci fu un concerto di Lou Reed. Era il 16 giugno 1980, e la Storia ci dice che la scelta fu un ripiego, vista la mancata disponibilità del San Paolo di Napoli. Io ero una ragazzina, e la fotografia che ho voluto scattare è quella dell’aria che si respirava nel mio quartiere nel pomeriggio precedente. La dedico a tutti i bambini e a tutti i ragazzi di via Capozzi degli anni ‘70/’80.